Come abbiamo già accennato negli articoli precedenti, la storia di Palazzo Venezia è molto lunga ma la sua storia come museo e relativamente recente. Infatti la sua vita museale risale solo al 1916, poco più di 100 anni fa, quando l’edificio venne recuperato dall’Austria e scelto come sede di un grande museo nazionale di arte medievale e rinascimentale, dove confluiranno collezioni e raccolte provenienti da altri musei.
Oggi però vogliamo parlarvi delle sale forse più importanti, quelle collegate all’appartamento Barbo, dal nome del suo committente Papa Paolo II. La prima Sala di cui parleremo non poteva non essere la Sala del Mappamondo, che prende il nome da un grande planisfero che in origine doveva essere affisso al centro della parete maggiore. Il mappamondo probabilmente venne realizzato grazie al supporto dal cosmografo veneziano Girolamo Bellavista, già al servizio di Pio II Piccolomini (1458-64) in Vaticano. Una sala che fu protagonista di un evento epocale, quando Carlo V fu invitato a Palazzo San Marco da Paolo III Farnese per la convocazione del Concilio di Trento (1545-63). Tra gli altri celebri ospiti del palazzo vanno ricordati Carlo VIII, il re di Francia che vi soggiornò nel 1495 su invito di Alessandro VI Borgia, e ancor prima quello di Borso d’Este, che nell’aprile del 1471 qui ricevette da Paolo II il titolo di Duca di Ferrara, occasione per cui proprio nella Sala del Mappamondo venne organizzato un grande pranzo tra i cui commensali c’era anche Francesco Ariosto, letterato al seguito di Borso nonché zio di Ludovico Ariosto.
Per raggiungere il piano nobile e la prima sala dell’appartamento Barbo dobbiamo percorrere la Scala Nova, che a prima vista sembra essere coeva alle strutture quattrocentesche del palazzo ma in realtà venne realizzata tra il 1924 ed il 1930 con il travertino proveniente da Tivoli. L’intera decorazione di questo scalone rimanda alla Terza Guerra d’Indipendenza del 1866 e alla Prima Guerra Mondiale 1915-18, ovvero le grandi vittorie italiane contro l’Austria; è ben evidente quindi il programma di stampo nazionalistico che ben si associa all’ideologia del Ventennio e che voleva celebrare l’acquisizione del palazzo che fu sede dell’ambasciata dell’impero austroungarico.
La prima sala che incontriamo è la Sala Regia, che per la sua ampiezza (ben 37 metri di lunghezza) è anche nota come Sala Maxima. Alla sala si giungeva dopo aver percorso la Cordonata; il nome di questa sala probabilmente allude alla funzione di ricevimento di reali e altri potenti personaggi che qui incontravano il pontefice. La sala è decorata con paraste dai capitelli corinzi che sorreggono un fregio a chiaroscuro con volute floreali, bucrani, fauni musicanti e tondi con busti di imperatori, affreschi che sono stati attribuiti al Bramante, presente a Roma nel 1499, dopo che la città di Milano fu invasa dalle truppe francesi di Luigi XII.
Al centro delle tre pareti senza finestre è possibile riconoscere la figura della Fama, alata e in piedi su un globo, mentre sulla quarta parete, si possono riconoscere dei medaglioni in chiaro-scuro raffiguranti alcuni soggetti ripresi dai bassorilievi dell’Arco di Costantino. Tutti temi che si ricollegano all’antica Roma e che in qualche modo il regime Fascista voleva recuperare, sarà probabilmente per questa ragione che in questa sala come anche nella Sala del Mappamondo la decorazione originaria verrà ripristinata proprio durante il ventennio fascista, seguendo la traccia di alcuni frammenti recuperati al di sotto degli strati di affreschi sovrapposti nei secoli. Per la ricostruzione del soffitto a cassettoni invece si utilizzò come modello quello della navata centrale della Basilica di San Marco, sostituendo le insegne di Paolo II con gli stemmi del Comune di Roma, del Regno d’Italia e del Leone di San Marco a simboleggiare Venezia.
Segue la Sala del Concistorio, perché qui si riuniva il collegio dei cardinali (l’ultima volta fu sotto il pontificato di Clemente VIII), ma la sala è anche nota come Sala delle Battaglie; qui tra coppie di colonne alternate a specchiature e finte nicchie, vengono rappresentate sulle pareti i luoghi e le date delle principali battaglie della Prima guerra mondiale. Questo è purtroppo l’unico tra i saloni monumentali in cui non si è conservata alcuna traccia delle decorazioni originarie, la sua epoca di massimo splendore si può ricollocare verso la fine del Settecento, quando assunse il nome di Sala dei Cinque Lustri, per via dei lampadari in vetro di Murano che lo illuminavano. In questa sala si tennero grandi balli organizzati dagli ambasciatori veneti e celebri eventi musicali. Basti pensare nel 1770 vi suonò un intero concerto il quattordicenne Wolfgang Amadeus Mozart e nel 1842 Gioacchino Rossini vi diresse per la prima volta il suo Stabat Mater.
Dalla Sala del Concistorio è possibile giungere forse alla sala più famosa di questo palazzo, la Sala del Mappamondo. Le decorazioni delle pareti mostrano una serie di gigantesche colonne corinzie su alte basi in forma di ara classica che sorreggono un fregio con sfingi alate e sei medaglioni con Dottori della Chiesa, affreschi che vennero recuperati dai restauri degli anni Venti del Novecento, e che sono attribuiti da alcuni critici ad Andrea Mantegna, probabilmente a Roma nel 1488 in città a servizio del papa per affrescare la cappella di San Giovanni Battista nel Palazzo del Belvedere. Nel corso del XVII secolo le pareti vennero decorate con piccole vedute e scene marine ed è probabilmente in questo il periodo che scomparve il celebre dipinto che ha dato il nome alla sala del Mappamondo, mentre nel 1715 l’ambasciatore Niccolò Duodo, oltre a modificare la finestra centrale decise di far aggiungere il celebre balcone che si affaccia su Piazza Venezia.
Dopo la sala del Mappamondo è possibile trovare sale più piccole ma non meno interessanti, sale che probabilmente erano adibite a luoghi di disimpegno o anticamere alle stanze private del pontefice (Stanza da letto e Studio del Pontefice), quindi è presumibile che fossero praticate solo da poche persone della sua ristretta cerchia privata. La Camera della Torre, veniva usata probabilmente come studio privato dove il papa custodiva la sua collezione di glittica, numismatica e oreficeria una sorta di museo privato che comprendeva monete, bronzi, cristalli, ori, gemme, argenti, avori, stoffe preziose e icone bizantine. Da cui emerge la passione di Paolo II per le opere orientali, derivata dalla cultura veneziana. Non mancavano sicuramente elementi d’arredo, tra cui erano presenti sculture antiche, tra cui i busti di Augusto e Agrippina, poi dispersi successivamente in altre collezione come quella di Lorenzo de Medici, la cui famiglia era stata grande rivale proprio di Paolo II sul mercato dell’antiquariato.
Proseguendo per queste piccole sale, si trova quella che forse era la camera da letto del papa e le sue ridotte dimensioni che si potrebbero giustificare per la necessità di riscaldare facilmente la stanza più privata di Paolo II. Anche se oggi nell’intero edificio rimane un solo camino quattrocentesco (nella Sala del Mappamondo) occorre immaginare che ognuna delle stanze fosse riscaldata da focolari.
Un’altra sala degna di nota è sicuramente la Sala del Pappagallo, che prende il nome probabilmente dall’esemplare che il papa teneva in questa stanza e per il cui mantenimento sosteneva frequenti spese (come ci viene riportato dai libri contabili). Anche allora alle classi benestanti piaceva sfoggiare animali rari e esotici, e il loro possesso era per lo più esclusivo di principi e pontefici; esiste infatti un’altra sala del pappagallo a Roma negli appartamenti vaticani di Niccolò V; oggi la sala è chiamata Sala dei Chiaroscuri e si trova all’interno dei Musei Vaticani.
L’ultimo ambiente dell’appartamento Barbo, che introduce alla parte monumentale dei saloni, è la Sala dei Paramenti che prende questo nome perché custodiva i paramenti sacri di Paolo II. L’ambiente è anche conosciuto come Sala delle Fatiche d’Ercole, i cui affreschi sono stati ricollegati affreschi alla scuola del Mantegna o a un suo allievo. Questo ci evidenzia come spesso i committenti si affidassero a pittori o artisti provenienti dalle stesse zone, in questo caso dall’area Veneta. La decorazione raffigura otto delle dodici fatiche di Ercole ma anche quattro fontane con amorini che giocano con l’acqua. Altra curiosità che potranno cogliere solo alcuni attenti osservatori e il segno particolarmente minuto e quasi inciso degli affreschi, ma anche una certa imperizia nella figurazione di notevoli dimensioni; questo ci porta a pensare che l’artista in questione possa essere stato un miniatore, e quindi abituato molto di più alle figure piccole e ai dettagli che a realizzare affreschi di grandi dimensioni.
Per molti visitatori la rappresentazione dei miti di Ercole potrebbe stonare con la sacralità cristiana, ma in questo caso entra in campo la lunga tradizione del Cristianesimo, che aveva nel corso dei secoli elevato la figura di Ercole a prefigurazione cristologica. Quindi le leggendarie fatiche dell’eroe vengono convertite in affermazioni morali contro i vizi, e la sua stessa tragica morte di Ercole sul monte Eta, raccontata da Seneca, viene interpretata come un’altra prefigurazione della Passione di Cristo, tradito da Giuda così come l’eroe si immola dopo l’inganno del centauro Nesso.
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